Il retro di un edificio, forse una chiesa, come ci fanno indovinare la finestra con la bifora e il profilo di un’abside sulla sinistra. Forse un cortile, uno spazio animato da nient’altro che foglie portate dal vento. Ecco come il pittore francese Albert Lorieux, alla fine dell’Ottocento, rappresenta la solitudine.
La composizione è limitata dalle mura dell’edificio, che chiudono lo sguardo e precludono il cielo mentre il pavimento è un confuso insieme di erba e gradini dimenticati, i colori sono morbidi e tipicamente autunnali, impastati con la luce dorata, che illumina con un gesto corposo le pareti, l’erba e le foglie.
Le foglie sembrano le protagoniste della composizione. Con il loro movimento leggero animano la scena con una danza accennata sospesa a mezz’aria.
Grazie a questo movimento quasi giocoso, l’immagine evocata dal titolo non si presenta particolarmente malinconica. La solitudine che viene raccontata qui non è quel sentimento di tristezza che porta alla disperazione, non quel momento in cui si cerca l’altro, bensì in cui si cerca se stessi. Tra le foglie che cadono, prende forma quel tempo di meditazione che ci permette di ritrovare noi stessi, la capacità di sentire la propria dimensione spirituale o di individuare un percorso personale, fare una scelta da seguire.
In questa composizione così chiusa, dove le mura dell’edificio non lasciano spazio al cielo, la porta sullo sfondo rappresenta infine la via d’uscita, l’apertura verso qualcos’altro, che sia una scelta o un’azione da compiere, diventa il punto d’arrivo dello sguardo dopo che si è perso dietro le foglie.
La caducità della vita, la calma dell’autunno che rappresenta l’addormentarsi della natura in attesa di un’altra stagione e le riflessioni che ne conseguono, si focalizzano quindi sul loro superamento, sull’attraversare quei gradini, arrivare alla maniglia e aprire quei battenti, per vedere cosa c’è dietro, per andare avanti dopo aver ripreso fiato.
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