H.C. Andersen è un artista che ha lasciato una testimonianza abbastanza curiosa del suo lavoro: un museo che nasce dal suo studio in cui racconta un progetto di vita che non vuole essere solo artistico, ma anche sociale e politico.
Nascoste tra le strade e i palazzi umbertini che dividono il fiume da piazza del Popolo, delle statue di sorprendente bellezza sono contenute da un edificio costruito apposta per loro, in due saloni dai soffitti altissimi che riassumono studio ed atelier.
Roma racchiude, tra le sue mille cose, anche il sogno universale di un artista norvegese, naturalizzato americano, che, nei primi del Novecento, ha poi scelto l’Italia per vivere e morire, ed ha scelto lo Stato Italiano come custode delle sue opere ed, implicitamente, anche delle sue aspirazioni per il futuro.
Qui è esposto, nelle sue sfaccettature di progetto fatto di piante, statue, bozzetti, dipinti, il sogno di costruire una città ideale nella quale si riunisca il sapere del mondo e si crei un dialogo tra i popoli che porti ad una pace utopica.
Il percorso tra statue monumentali e piccoli bozzetti ci presenta figure armoniose in pose aeree, immagini gioiose di amore, maternità, preghiera, forza, in un viaggio che non vuole essere retorico ma rappresentare un inno a quello che di positivo può essere e può fare l’umanità.
Per questo scegliere una statua sola e parlare di quella diventa impossibile, perché il valore reale dell’opera di Andersen è in quello spazio che la ospita nella totalità dei pezzi che la compongono, come un puzzle che deve essere visto composto per essere capito.
E quello che ci racconta il museo con le sue statue è quello che vorremmo tutti, un mondo senza conflitti, prosperoso, in cui uomini e donne siano alla pari ed esprimano la bellezza della propria anima attraverso l’immortalità dell’amore.
Così le sculture ci coinvolgono nel loro dialogo muto e dolce con gli spazi, essi stessi divenuti loro malgrado opera d’arte, e ci regalano un percorso visivo unico, bellissimo e sorprendente.
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