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La GNAM e il tempo che passa

Tutto nasce dal desiderio di andare a vedere Giacomo Balla, credo l’unico artista con più di un quadro nel mio piccolo blog. Non gli resisto, sono sempre affascinata dalla sua ironia sottile, da quel suo concentrarsi nella luce come fonte dell’immagine e del suo movimento.

E così sono andata a vedere la mostra: Un’onda di luce, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, detta brevemente GNAM.

La GNAM mi ha promesso una mostra che “espone per la prima volta insieme le opere provenienti da entrambe le donazioni, offrendo così l’occasione di una rilettura essenziale, ma efficace, del percorso di Balla attraverso opere significative dei momenti salienti della sua attività”, quindi lo sapevo che non sarebbe stata una grande retrospettiva, ma sapevo anche che avrei visto qualcosa di “saporito” per me (in tema con il gioco di parole che fa venire in mente l’acronimo del museo).

Così ho affrontato la “domenica dei musei gratis” e, complice la fortuna, sono riuscita ad entrare in un museo pieno dell’entusiasmo di un pubblico che si gode l’arte senza pagare e quindi felice come non mai. In questo clima di festa fatto di passeggini, monache con la macchina fotografica, coppie di adolescenti che ridacchiano, ho potuto anche finalmente valutare in prima persona i grandi cambiamenti all’allestimento della Galleria apportati dalla nuova direttrice e che hanno suscitato un po’ di chiacchiere tra gli addetti ai lavori e pettegolezzi tra quelli che, come me, di arte non campano.

Da premettere che la mia visione del museo è comunque condizionata dall’affetto, nato nei pomeriggi malinconici della mia giovinezza passati tra le sale dell’Ottocento, seduta sui divani di velluto rosso a contemplare Giulio Aristide Sartorio piuttosto che il gruppo scultoreo di Giulio Monteverde, “Idealità e Materialismo”, quindi non sono sicuramente oggettiva, e dovrete prendere le mie considerazioni per quello che sono: forse le parole di una povera invidiosa o di un’italiana media.

Infatti, come ogni italiano medio che crede di saper fare l’allenatore della Nazionale o il Presidente del Consiglio, anche io voglio mettere bocca sulle scelte della direttrice del museo non avendo assolutamente i titoli per farlo ed invidiando pubblicamente la sua posizione.

La prima cosa che si nota e che fa molto piacere è il bianco alle pareti, che tira fuori gli spazi, alza i soffitti, in generale “pulisce la visione”.

Ma ora viene il tasto dolente: le opere sono state tutte tolte e riposizionate seguendo l’idea scritta sulle scale: “time is out of joint” ma senza altre spiegazioni, cartelli, scritte se non le didascalie, seguendo un ordine talmente confuso da diventare assolutamente soggettivo, forse per creare una sorta di fiume cognitivo che vive di rimandi per dimostrare come tutto abbia una radice e una continuità nel tempo che si sovrappone. O almeno così ho pensato visto che dentro il museo non è scritto da nessuna parte, il disordine ordinato che propongono potrebbe essere il frutto di qualche partita a morra cinese andata male.

Il visitatore passeggia nelle sale, guarda un quadro, poi ne guarda un altro, poi pensa che uno gli piace più di un altro e finisce là. Incontra Boldini in sale diverse, Balla, che dovrebbe stare nella mostra del mezzanino è anche esposto nelle sale sotto, sculture messe di spalle in posizioni che non corrispondono minimamente al modo in cui sarebbe corretto vederle.

Sono talmente spaesati che cadono anche in un’opera non riconoscendola, ho visto una ragazza affondare nel Mare di Pino Pascali, 32 metri quadri di acqua ferma, e forse per questo sarebbe stato meglio chiamarla la palude, ma questa è un’altra storia.

Il misterioso gioco di rimandi che dovrebbe esserci tra quadri, fotografie, installazioni e statue rimane per la maggior parte del tempo misterioso, mentre opere preziose, per la storia dell’arte e per la storia della bellezza, vengono affogate dalla mancanza di senso che le circonda.

Così chi non conosce questo museo e viene a vederlo per la prima e forse ultima volta con il passeggino dopo la gita a villa Borghese, perderà l’occasione di comprendere un sacco di cose perché l’unica scritta bella grande che incontrerà è “Book Shop”.

Alla fine sono riuscita ad arrivare alla piccola mostra di Balla praticamente andando a naso, visto che le indicazioni mortificanti avevano meno rilevanza della segnaletica antincendio (che per carità è fondamentale). E la mostra mi è piaciuta perché ha avuto una comunicazione onesta dimostrando uno sforzo ammirevole nel rappresentare un senso e un’idea, al di là di tutto quello che la circondava.

Quindi, ricapitolando, mentre giravo per un museo dove le opere sembravano passate dentro uno shaker e buttate un po’ a caso, arrivo alla sala dell’Ercole e Lica di Canova, un tempo esaltazione della ricerca del sublime, fiore all’occhiello del Museo, usata per conferenze e incontri, insomma, come luogo dove si ci riunisce per parlare insieme di cultura e… butto fuori un singulto che fa girare la gente intorno a me.

Dietro al gruppo del Canova, vedo la bellissima opera di Penone, che si può giustamente vedere nella sua completezza solo in diagonale. Quindi il quadro gigantesco diventa la tappezzeria del gruppo scultoreo che lo precede e finalmente ho capito a pieno il senso reale di questo allestimento: mortificare tutto, artisti e opere, inneggiando ad una visione contemporanea dell’arte riassunta solo nel motto sulle scale, che vorrebbe forse rileggere il passato con gli occhi del presente ma ci riesce molto poco.

Hanno voluto “sovrapporre il tempo” partendo da una collezione che invece ha avuto uno sviluppo lineare e l’impronta della” Santa subito” per me, Palma Bucarelli, credendo che si potesse accostare momenti artistici forzandoli, con un ragionamento che diventa personale e quindi impossibile da rendere intuitivo.

Una scelta che potrebbe diventare vigliacca, perché accompagnata anche da un’epurazione vera e propria di alcune opere, tolte o nascoste letteralmente, senza una comunicazione scritta nero su bianco che la giustificasse, in modo da poter sempre dire che si è frainteso, che si è criticato senza comprendere, basando tutto sulla vaghezza di uno slogan che per di più è anche fisicamente fuori dal museo e che mi ha ricordato il “lasciate ogni speranza voi che entrate” di dantesca memoria.

E l’epurazione, in questo caso soprattutto dei significati, continuata sul sito, dove si sono tolte tutte le schede dei quadri della collezione, che avevano un valore didattico fondamentale e di cui pochi si sono accorti. Una cosa per me più grave di quello che è stato fatto nelle sale del museo, perché toglie l’ultimo appiglio che poteva avere un visitatore per capire e conoscere veramente quello che vedeva senza il filtro della curatela.

A questo punto mi chiedo il perché di tutta questa fatica per fare un cambiamento che sembra “a tutti i costi”. Il museo era vecchio? Come un appartamento che va ristrutturato dopo quindici anni e messo a norma? Oppure si è voluto fare un atto culturale profondissimo, spazzare via la “vecchia visione”, chiara, semplice ed efficace, per inserirne una nuova, sbagliata ma comunque nuova, perché nuovo è bello a tutti i costi, anche a costo della verità.

Ma la verità nell’arte, per quanto molti critici e curatori si sforzino di negarlo, viene fuori sempre, e succede pure quando si esce dal nuovo allestimento della GNAM ripercorrendo le scale con la scritta, quello che si pensa è “Sono buoni tutti a mettere i quadri così” e sinceramente, l’ho pensato anche io.

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