Un modo diverso di vedere il mare. O meglio un modo diverso di vedere il mare dalla terraferma. Non passeggiando su una spiaggia al tramonto, o da una collina che ti permette di perdersi nell’orizzonte, ma da una banchina veneziana, dove due giovani tirano una grossa fune e rimorchiano una barca.
La fune si chiama Alzana, e dà nome al dipinto, realizzato da Cagnaccio di San Pietro nel 1926. Qui il pittore rappresenta uno dei lavori più umili e degradanti, un lavoro da animali da tiro, svolto solo da chi è ai limiti dell’indigenza. I due protagonisti non hanno una faccia troppo sofferente, ma esprimono lo sforzo nei muscoli gonfi e nei tendini tesi, nelle vene dilatate sul fisico asciutto e dall’incarnato abbronzato, coperto solo con braghe colorate a righe e a quadretti. Li assiste dall’alto della carena un’immagine votiva, una Pietà, che non sembra per niente coinvolta dalla fatica che fanno gli uomini per portarla.
I colori sono lucidi e allo stesso tempo pastosi, dialogano con una luce chiara e limpida che li anima liberandoli in forme fluide anche se imbrigliate in schemi di rigidità che fondono realismo e idealizzazione perché caratteristica di questo quadro è la contraddizione.
Vediamo, infatti, la contraddizione tra forme costruite con precisione e prospettive innaturali, ma soprattutto tra l’immobilità della composizione e la necessità del movimento che rappresenta. Le figure descrivono uno sforzo che nel suo essere bloccato diventa vuoto, vanificato. Uno sforzo che non porta al risultato perché il peso che devono sostenere è troppo grande per loro.
Sembra quasi che il Cagnaccio racconti qui la storia di due personaggi che si sforzano di spostarsi e non ci riescono proprio a causa del peso che devono muovere, in un rimando ad una metafora della vita in cui l’affanno non è negoziabile e il risultato dell’impegno è sempre negativo perché il riscatto è impossibile.
Ecco quindi che nel momento in cui si accetta un lavoro che è espressione della propria disperazione si rimane incastrati in un circolo di fatiche ed illusioni che ci imbrigliano e tirano, che ci portano fuori dal movimento naturale delle cose, in un fallimento che non è mai conclusivo, ma vissuto come una condizione d’animo che diventa quasi rassicurante perché senza sorprese.
Ma l’assenza di speranza che racconta questa storia diventa un monito: a volte è giusto accettare i compromessi della disperazione, ma non bisogna farsi sopraffare, non bisogna dimenticare che esiste sempre un’altra strada da percorrere, e il primo passo è accettare che le proprie debolezze sono anche la base della propria forza.
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