Ho abbandonato Ruzzle, o meglio, lui ha abbandonato me. Per chi non lo sapesse Ruzzle è un giochino che si può fare sul telefono o sul tablet che si basa sul paroliere. In 2 minuti devi comporre più parole possibili trovandole in un quadrato di lettere buttate là a caso.
Detta così sembra semplice, ma la sfida vera è che giochi contro un’altra persona, di solito un amico che puoi selezionare tra i tuoi contatti di Facebook o Twitter o What’s app o uno che ti arriva a caso, se lo vuoi.
Un gioco basato quindi sulle relazioni interpersonali, che permette di fare qualche piccola ripicca, di prendersi silenziose rivincite con qualcuno che nella vita invece batte te o di rimorchiare qualcun altro, grazie alla funzione “chat”.
E sono gli amici stessi che ti trascinano in questo vortice perché sono loro che ti invitano a giocare. Io, che l’ultima volta avrò giocato a campana sul marciapiede davanti a casa di mia nonna e, dopo essermi sbucciata il ginocchio, ho smesso di praticare giochi pericolosi, ho pensato che non fosse pericoloso. Invece sbagliavo. Perché naturalmente il lato livoroso del mio carattere ha trovato una nuova valvola di sfogo.
All’inizio sembrava divertente, ma per gli altri, perché io ero la schiappa di turno. Ovvero Ruzzle è un gioco in cui l’esperienza è fondamentale, se ci si applica si imparano le parole e si vince. Ma ti devi applicare. E questo vuol dire che, mentre giochi, non ti devi distrarre ovvero non devi scrivere messaggi, non devi girare il sugo, non devi rispondere alla telefonata dell’amico che non ti chiama da quattro mesi e che pensavi fosse morto. Quei due minuti devi giocare concentrato, con gli occhi fissi sullo schermo, senza sentire niente intorno a te che non siano gli scampanellii dei punti che si accumulano.
E devi essere scaltro, devi partire dalle parole inutili e stupide come “ai” “io” “le” “la”, per arrivare anche a termini che ti fanno vergognare di sapere l’alfabeto, ma che fanno punteggio, come la parolaccia, che può fare la differenza e portarti ad una meritata vittoria sull’amico saccente che ti ha battuto per venti partite di seguito. Le esitazioni non sono ammesse, le dita devono scorrere fluide sul touchscreen e non perdere secondi preziosi, la freddezza è alla base di ogni grande partita.
Ma ritornando ai tempi di Ruzzle, questi si sviluppano così: come accennato, per i primi cinque giorni si gioca con gli amici che lo conoscono da prima di te, se hai fortuna hanno pietà e ti battono con poco scarto, per non ledere eccessivamente la tua autostima. Poi a questi amici se ne aggiungono altri che arrivano dopo di te, e a quel punto si inizia a vincere. Quindi la pazienza sembra premiata. Poi però i più bravi diventano bravissimi ed appaiono anche degli amici “campioni galattici”, e allora diventa tutta una gara a cercare di rimanere in sella mentre tutti intorno a te migliorano e tu, che hai una vita, quindi lavori, esci la sera, parli con il fidanzato o la fidanzata, non giochi abbastanza per migliorare.
In men che non si dica sei in un circolo vizioso che ti ingoia e ti fa giocare le partite nei momenti più impensati, che ti fa rosicare mortalmente se perdi, e che ti dà l’ebbrezza effimera di una vittoria presto dimenticata. A questo si aggiunge il pubblico ludibrio delle segnalazioni delle tue sconfitte su Facebook. Non solo perdi, ma lo devono sapere tutti, così che a chi “piace vincere facile” verrà la tentazione di invitarti a giocare e rosicchiare quel poco di autostima che ti rimane.
Per questo ho smesso di rispondere agli inviti, non finisco più le partite e mi sento inabile alla gara, perché, a questo punto, mi sento come con il gioco della campana, tanto innocuo quando tracci le righe per terra, tanto pericoloso quando inizi a saltarci sopra.
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