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Malinconia portami via (forse)


cuore al kilo

Dovevo nascere nell’Ottocento, e non solo perché il mio fondoschiena sarebbe stato delle giuste proporzioni mentre il colore pallido della mia pelle avrebbe ribadito la mia bellezza, ma anche perché quel lato malinconico che spesso prende il sopravvento sul mio carattere de merda (cfr. merda è un francesismo, non una volgarità, viene da merde) non avrebbe infastidito nessuno, anzi, mi avrebbe reso ancora più affascinante.

È fondamentale abbracciare la coscienza di quanto questa attitudine sia imprescindibile dal resto del mio carattere, perché tutti lo sanno che la malinconia è una caratteristica delle menti sensibili e attive, prende a braccetto la noia e se ne va a zonzo per il nostro animo ricordandoci quanto sia squallida e misera la nostra vita.

La malinconia può essere pericolosa, si autoalimenta di comportamenti sbagliati che ti fanno entrare in un loop emotivo molto difficile da interrompere e che porta comunque danni a volte di difficile risoluzione. E’ subdola perché nasce da un’azione, un’immagine, un suono, che diventa veicolo di un’infezione molto più estesa.

E se un brano alla radio o una foto in un cassetto possono essere l’interruttore più comune che fa partire quel groppo di tristezza che ci fa venire una ruga in piena fronte e le occhiaie, esistono anche altre cose che possono essere imprevedibilmente nocive.

La spellatura del mattino per esempio, quella che arriva a due settimane dalla fine delle vacanze, dopo la doccia e prima di andare in ufficio, in cui ti accorgi che la tua pelle, un tempo dolcemente morbida e ambrata, si polverizza orrendamente come la forfora di un orango. Non solo diventa imbarazzante, perché questo orrore bianco si posa un po’ dove capita, soprattutto su maglie e pantaloni scuri, ma sembra che tutto il nostro corpo si spogli dei benefici dell’estate per riprendere quel misero color verdino sinonimo di tristezza, mentre il doposole diventa un palliativo ancora più deprimente.

Anche l’armadio nasconde insidie, come un paio di jeans che hai comprato nove anni prima, messo talmente poco che è ancora nuovo e che allora ti entrava e ora non ti entra più. Come fare a non immalinconirsi quando ti illude arrivando fino alla vita e poi il bottone rimane bloccato a sei centimetri dall’asola? Senti tutta la giovinezza che ti scivola tra le dita, mentre lo rimetti a posto e pensi con rimpianto che allora non comprendevi la tua fortuna, e la tua magrezza.

A quel punto, in vena di ricordare quei momenti in cui la quaranta non era la taglia francese ma l’italiana, ti metti a cercare i vecchi compagni di scuola su internet sperando di trovarli anche loro imbolsiti e sfigati. Ma lo fai con discrezione, perché alla fine li vedi tutti uguali, tranne uno che sembra si sia rifatto il naso, e pensi che forse non sei tu ad essere cambiata, è il pantalone che si sarà ristretto, del resto è vecchissimo, e lo sanno tutti che da anziani si diventa più bassi, succederà pure con gli abiti, che hanno una vita più breve degli umani, o no?

Vedete che brutti scherzi fa la malinconia? Ti fa venire voglia di andare a fare la spesa a otto chilometri, dal negozio di verdura che ti piaceva tanto, e di comprare il pane là vicino, insieme a qualche cosa della rosticceria che forse ha contribuito, negli anni, a restringere quel jeans.

Così ti ritrovi a pensare che avevi pure un altro colore di capelli, un’altra casa, un’innocenza che non hai più, che ti piaceva Paolo Conte e tante altre cose.

Ma d’altro canto anche le cose che non sono cambiate possono affacciarsi nella tua vita per intristirti, come quella sottile indeterminatezza negli obiettivi della tua vita, che ti porta sempre un po’ più avanti, ma sempre secondo la direzione del vento, che non sai mai se sia poi veramente la tua. Pensare al destino è uno degli errori più grossi quando si è malinconici, non sappiamo mai quanto sia colpa sua e quanto sia colpa nostra, ma anche quanto colpa di qualcun altro.

E mentre scende quella lacrimuccia salata e la ruga diventa più profonda, senti un languore basso e sommesso proprio là, al centro del petto, anzi, un po’ più giù, proprio all’altezza dello stomaco.

Allora capisci che forse il problema non sono gli anni che passano, gli ormoni che ti scombussolano, le cose che sono cambiate e quelle che invece sono rimaste ostinatamente uguali, è solo che s’è fatta una certa ed è ora di andare a pranzo, nel posto dove vai da sempre, perché la fame fa fare brutti pensieri, come dimenticare che le cose belle che hai sono sempre di più delle brutte che hai avuto, alla faccia della malinconia.

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