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La dura vita dello storico dell’arte


La dura vita dello storico dell’arte non è solo notti passate a studiare, dermatiti da polvere prese per il contatto prolungato con i volumi poco spolverati di biblioteche dai nomi improbabili, pagamenti ricevuti dopo un anno e mezzo dalla consegna del lavoro, é anche rapporto diretto con il pubblico, ovvero visite guidate.

Come timida patologica io cerco di limitare allo stretto necessario quest’ultima attività, che fa salire la lancetta del mio “ansiometro personale”, di solito nella fascia gialla denominata “possibile disastro imminente” su quella rosso sangue con scritta nera” fine del mondo alle porte”. Ma la mia vita é fatta di sofferenza, quindi recentemente ho ricevuto la telefonata che non vorrei mai ricevere: quella di un amico che mi chiede di portare un gruppo di innocue vecchiette in pellegrinaggio a Roma a fare un giro per il centro della città. E io non ho potuto dire di no perché era un amico, ma soprattutto perché era un lavoro pagato, una rarità di questi tempi. Così ho iniziato la preparazione, fatta di studio compulsivo alle ore più improbabili, lamentele massacranti con chiunque mi capitasse a tiro e soprattutto crescita esponenziale di ansia e di cattivo umore. Voi naturalmente direte che sto esagerando, del resto io sono una storica dell’arte, é il mio lavoro, sono cose che dovrei saper gestire, ebbene, ora vi dico una cosa che pochi sanno: lo storico dell’arte medio non è onnisciente, ed io in particolare ho la memoria di un criceto che viene drogato per impedirgli il suicidio con la ruota: ci sarà sempre un nome che storpio per sbaglio o una data che inverto. Inoltre la visita guidata é costruita su un elemento fondamentale presente in ogni tipo di ansia: “l’imprevedibile”, ovvero, il visitatore può chiedere qualsiasi cosa, soprattutto quella che non sai. Quindi lo studio si compone principalmente dello scovare la domanda impossibile prima che venga fatta e farsi trovare preparati. Il giorno della visita sono talmente nervosa che non mangio, ho il famoso criceto che dalla testa è passato allo stomaco e pure là si diverte un mondo a scorrazzare. L’appuntamento è all’hotel gestito da religiosi dove risiede il gruppo ed io prendo un taxi al volo guidato da una ragazza che dopo aver avuto l’indirizzo mi guarda e mi chiede “Lavori per i preti?” Prima domanda folle e non è ancora iniziata la visita! Le rispondo di no e le spiego che cosa devo fare, lei riprende a guidare e dopo circa trenta secondi si gira di nuovo e lancia l’altra bomba: “Ma cos’é uno storico dell’arte?” Bella domanda. Trattengo la prima risposta che mi viene in mente, ovvero: “un morto di fame”, e imbastisco una versione romanzata del mio lavoro, fatto di studio, dedizione e passione. E la tassista mi rispose di rimando “Allora tu mi sai dire, solo guardandola, quella chiesa quando è stata fatta”, e indica una chiesa famosa che però io non ho mai studiato. Quindi io faccio la cosa che bisogna fare in questi casi: alzare con noncuranza le spalle e buttare tutto in caciara “Certo, ci sono delle caratteristiche della facciata che me lo dicono. Ma vedi per esempio il ponte di Castel Sant’Angelo? Quello é un altro esempio del discorso che facevo…” e inizio a parlare di tutt’altro. Ma la curiosità della giovane taxista non è sazia, tanto che mentre stiamo arrivando a destinazione mi guarda nuovamente con i suoi occhioni dalle ciglia piene di mascara e mi fa: “Ma cos’é Castel Sant’Angelo?”. Le spiego compiutamente 2000 anni di storia in un circa quattro minuti, ma alla fine sempre 10 euro mi fa pagare la corsa. Ancora una volta la cultura non mi ripaga degli sforzi che faccio per diffonderla. Così entro in modalità lavoratrice ed inizio le azioni preliminari per la visita, ovvero presentazioni, raduno dei partecipanti, elargizione sorrisi e distribuzione cuffiette. Queste ultime sono tra i tranelli peggiori in cui può incappare la guida proprio perché permettono di parlare con tono normale ai visitatori che sentono tutto, e in tutto sono incluse imprecazioni, sospiri, battute anticlericali che ci si pente subito di aver fatto. A voi naturalmente non racconterò il percorso, sarebbe tedioso riassumere qui due ore di visita, ma non riesco a non citare alcuni soggetti antropologici che hanno allietato il mio lavoro. Tra questi la signora con bastone che arranca con spirito alpinistico e si fa immortalare dal marito con macchinetta dotata di flash enorme di fronte ad ogni monumento visitato; le signore che mi fermano per chiedere di andare a fare delle commissioni improbabili tipo comprare un rotolo di non meglio identificata “carta speciale” nella cartoleria proprio là dietro, o le sigarette, ma che chiariscono non sono per loro. Una menzione speciale ad uno dei pochi uomini presenti nel gruppo, un siciliano altro un metro e cinquantacinque, di età indefinibile, senza collo e dai capelli sospettosamente corvini, che mi si attacca addosso per tutto il tempo, commentando e facendo appunto le domande assurde che temevo. Capisco che sarà la mia maledizione quando, già dal pulmino, allunga la testa per quanto gli permette il non-collo e, indicando la stessa chiesa della taxista, mi chiede quando è stata fatta. Ma voglio rassicurarvi, a parte la richiesta, sempre da parte del siciliano, di conoscere la valenza simbolica dell’elefante nella cultura domenicana, dove applico la famosa tattica “butta in caciara e scappa”, riesco ad arrivare vincitrice alla fine dell’avventura e devo ammettere, anche con una certa soddisfazione. Risponderò, infatti, alla domanda imprevedibile più prevedibile di tutte, nel Pantheon, unico tempio pagano integro anche se trasformato in chiesa, edificio dall’architettura superba che dovrebbe ammutolire chiunque per la caratteristica di avere un’unica apertura centrale nella cupola da cui entrano luce e aria. Nel tempio dedicato a tutti gli Dei, di fronte alla magnificenza degli antichi, alzano tutti il naso all’insù e, guardando quello che nel gergo degli addetti ai lavori è l’oculo, indicano la finestra circolare e mi pongono subito domanda di rito: “Ma è tutto aperto, allora qui dentro dentro ci piove?” E io, questa risposta, la so!

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