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Impressioni di Cinema


Ho capito che dovevo lavorare nel cinema la prima volta che ho visto il tavolo della pausa. Pizza per trenta persone, rossa o bianca con la mortadella, 6 litri di coca-cola, e nessuna remora.

La pizza delle 11 è il momento in cui tutto si deve fermare e tutti, ma dico proprio tutti, devono mangiare. Dal regista all’attrezzista, passando per ogni singolo attore e attrice, tutti devono passare davanti a quel tavolo e abbandonare la vergogna per concedersi un momento di intimità con il carboidrato più unto.

Anche l’attrice che pesa 40 Kg davanti a quella pizza non ha dubbi: la vedi allontanarsi con il secondo pezzo come se fosse un bicchiere d’acqua, e questo mi rende più sicura quando prendo il terzo, perché se lei, che non mangia, ne prende 2 senza problemi, io che normalmente sembro un camionista con 3 pezzi ho fatto il pasto del passerotto.

E questo innamoramento per il cinema è continuato con il cestino. Un pasto completo che arriva intorno alle 13, ovvero 2 ore dopo la pizza, episodio di cui lo stomaco non sembra avere già più memoria. La fame accoglie con gioia questo pasto variato, dal primo alla frutta, che si consuma come in gita, messi un po’ come capita, a parlare del più e del meno, scherzando sulle cose più banali. Ma che viene giudicato neanche fosse il menù degustazione di un ristorante stellato, e se non soddisfa tocca poi rifarsi con la pizza avanzata, che invece di solito è tenuta gelosamente per lo spuntino del pomeriggio. Quest’ultimo non è dichiarato, ma si svolge con grande riservatezza, ognuno sceglie un momento per avvicinarsi di sottecchi agli avanzi e si porta via un pezzetto con molta discrezione fino al totale dissolvimento del cibo.

Poi amo anche le magliette. Devono essere le più varie, preferibilmente con riferimenti al cinema, dalla locandina alla frase, tutte divise per tipologia di ruolo. I tecnici, infatti, hanno le magliette dei service per i quali hanno lavorato, mentre registi, aiuto registi, direttori di fotografia o produzione, per non dire segretari di edizione, devono portare una divisa fatta di battute sagaci e titoli ad effetto. Basta che dimostrino ironia e cultura che li distinguano dagli altri.

Non ci si mettono i tacchi quando si fa il cinema, perché si sta tanto in piedi, si gira a vuoto in continuazione, magari è necessario fare uno spostamento di corsa, o comunque in silenzio perché quando si gira nessuno deve fiatare e si deve respirare piano. Quindi bisogna stare comodi.

Così non ci sono molte minigonne che si muovono per i set oltre quelle dei costumi e delle costumiste. Queste ultime, di solito, sono però molto più dimesse di quello che ci si aspetterebbe, come se la gestione di tutte quelle camicie abbinate a scarpe abbinate a loro volta a cinte e a cappelli le costringesse ad annullarsi per esprimersi nei vestiti degli altri, non nei loro.

Eppure questa informalità è la fonte di un’energia importante, perché non è lo stacco di coscia che guida le azioni di chi si muove sul set, ma quanto è sicuro il passo tra i cavi e silenzioso lo starnuto sul monitor della regia.

Un’altra cosa bellissima è poi la varietà di ruoli. Ognuno sposta la sua pietra nel giardino zen e tutte le pietre formano il giardino. Non ho capito cosa facesse la metà delle persone che stavano là eppure sembravano tutti indispensabili.

Ognuno è responsabile di qualcosa di misterioso che tutti gli altri sanno e ognuno guadagna meno di quando guadagnerebbe in una produzione americana. Nessuno critica apertamente il lavoro dell’altro ma ognuno ha un’opinione che bofonchia di solito in un commentino fuori luogo che sentono solo quelli vicino a lui, mai destinato alle orecchie dei ruoli troppo diversi. Questi commenti servono a creare quel filo magico tra i diversi lavori, per questo non sono cattivi ma necessari, legano le esperienze e le portano avanti. Chi lavora nella regia bofonchia su chi fa i costumi e viceversa, chi fa il trucco ha da dire qualche parola sottile sul fonico, tutti di solito hanno un’opinione sulle luci. E il direttore delle luci deve parlare in modo che non lo capisca nessuno. Questa cosa è oggetto di commento sempre di tutti, ovvero che nessuno capisce il direttore delle luci quando parla, di solito neanche i tecnici delle luci. Il fatto che io lo capisca nove volte su dieci mi preoccupa un po’.

Una cosa però che ha il cinema e non mi piace c’è: il fumo. Fumano tutti. Fumano sempre, nelle pause ufficiali e non, tra un cambio di scena e l’altro, tra un ritocco e l’altro. C’è sempre qualcuno che scappa da qualche parte a fumare mezza sigaretta, che se la prepara per dopo, che la ruba a qualcun altro. Si fuma troppo, questo è innegabile.

Ma si giustificano tutti con la scusa delle attese: il truccatore deve aspettare il costumista, il regista deve aspettare il cambio di scena, il fonico le luci, le luci il fonico, l’attore aspetta a turno tutto come il segretario di edizione. Così anche il problema di dove sedersi diventa importante.

“Trovati una sedia” è la frase più usata nel cinema. Una frase semplice che esprime la precarietà di tutto quello che circonda le scenografie, che assorbono ogni interesse e gli sforzi degli scenografi e che non possono essere vissute al di fuori del ciak che le compete. Guai a sedersi su un divano o su una sedia posizionati nel limite della scena, e se si strappa la stoffa? E se lo macchi? E se si sfonda? Poi chi lo paga? Poi come si gira? I mobili delle scenografie sono tra le fonti di ansia peggiori, come il tempo quando si fanno gli esterni e le paturnie degli attori.

Che poi bisogna sfatare questa visione dell’attore star che arriva sul set e rompe le palle su tutto. Di solito è quello che si prende i ritardi degli altri, a cui rinfacciano gli errori nelle battute o il fatto che trema o suda per vestiti o troppo leggeri o troppo pesanti. Nessuno tiene mai conto che, molto più spesso di quanto si creda, deve sopportare delle scarpe strette per ore e ore.

E gli sceneggiatori? Dove stanno quelli che sono alla base di tutto, quelli senza i quali non ci sarebbe niente da raccontare e niente da fare? Questo non lo so, perché sul set non li ho visti. Si posizionano in un empireo che li vede non solo lontani, ma inarrivabili. Una volta consegnata la sceneggiatura, quasi venisse lanciata dall’alto delle nuvole, questi scompaiono, o volano verso altri progetti, tutti pagati. Scopro, infatti, che sembra sia l’unico lavoro di scrittura ancora pagato in Italia, ma ho raccolto, a posteriori, fonti contrastanti su questo argomento.

E quando ho capito che dovevo lavorare nel cinema ho anche capito che significa la “magia del cinema”, non è Frodo e il villaggio degli Hobbit, o Indiana Jones che trova il Santo Graal, ma sono le mille storie di ogni persona che in quel momento è chiamata a lavorare che creano il “prestigio”, l’inaspettato, qualcosa che nessuno ha mai visto prima.

B.N.

Il prestigio è descritto da Caine nel film omonimo “The Prestige”: “Ogni grande numero di magia è costituito da 3 parti. La prima si chiama PRESENTAZIONE: il mago mostra qualcosa di ordinario che naturalmente non lo è. La seconda si chiama COLPO DI SCENA: il mago trasforma quello di ordinario in qualcosa di straordinario. Non cercare di scoprire il segreto perché non ci riuscirai. Per questo esiste una terza parte chiamata PRESTIGIO dove succede l’inaspettato, dove vedi qualcosa che non hai mai visto prima”.

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