Aveva ragione mio padre quando diceva, di solito prima di mangiare un dolce: la gente odia chi è felice.
Forse perché a essere felici, infondo, cosa ci vuole? Un cucciolo caldo, stare sotto al piumone quando piove o camminare a piedi nudi sull’erba.
E invece cosa si deve fare per essere infelici?
L’infelicità infatti non è per tutti anzi, è solo per i veri professionisti, quelli che sanno calibrare sentimenti, stati dell’umore, circostanze avverse e creare una cappa grigia e pesante intorno al loro cuore che fa seccare i fiori nei vasi quando passano, ingrigire i capelli degli amici e porta gli animali domestici al suicidio.
Certo, detta così magari la sto facendo troppo semplice, quindi ci tengo a precisare che l’infelicità è il frutto di un processo alchemico basato sull’armonia e la padronanza di se stessi. Il vero infelice, infatti, compie sforzi immani per raggiungere il suo stato, ma agli occhi degli altri, dei poveri profani, sembra invece che ottenga questi risultati senza fatica, assecondando una dote naturale. Invece l’infelicità è frutto di disciplina, impegno e determinazione, e per questo bisogna ammirare sempre chi è veramente infelice.
Io ho cercato di applicarmi spesso a questa scienza, certo sono stata aiutata dalle circostanze in molte occasioni, problemi professionali, sentimentali, familiari e di salute si sono avvicendati nella mia esistenza creando importanti possibilità d’azione e terreno fertile per l’infelicità, ma purtroppo io non ho mai avuto un carattere veramente determinato in niente, e anche in questa occasione mi annoio troppo presto per impegnarmi a perseguirla.
Per quanto mi sia sforzata, anche compiendo scelte volutamente sbagliate che mi dessero quello sprint iniziale necessario per il raggiungimento dell’obiettivo, alla fine mi è sempre mancato quel “quid”, quel “non so che”, che mi facesse attraversare il traguardo di un’infelicità piena e soddisfacente. Anche quando mi sono ritrovata a percorrere il famoso tunnel di cui non si vede la fine sono riuscita ad arredarlo per renderlo abbastanza confortevole.
Certo, non posso mettere limiti alla provvidenza, soprattutto negli ultimi sei mesi ho avuto un sostegno esterno importante per avvicinarmi ai traguardi che ho agognato per tanto tempo, alcune persone hanno perseguito la ricerca della loro felicità grazie alla ricerca della mia infelicità, mentre alcune circostanze del destino sembravano volermi condurre su terreni inesplorati e appuntiti in cui sarei potuta rimanere infilzata.
Addirittura ho avuto l’impressione che i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse in persona fossero venuti a cercarmi a casa per farsi offrire una tazza di tè, modestamente eccezionale grazie alla sapienza delle preziose amiche che me lo forniscono. Ma ho sempre il citofono rotto, quindi l’unico che mi ha trovato è stato il medico dell’INPS, che forse sarà il cugino essendo anche lui una figura ammantata di leggenda.
Quindi ancora una volta le premesse per essere veramente infelice ci sono state, ed oso dire che pure adesso, se mi concentro, mi sembra di vedere in lontananza i vessilli dei cavalieri di cui sopra che comunque ancora non sono abbastanza lontani.
Eppure non riesco a concentrarmi veramente su quei vessilli che si muovono nel vento, anche non volendo io guardo dietro di loro, verso i colori sgargianti di un ombrellone, grande come un ombrellino da cocktail, per quanto è distante, e oltre i riflessi delle onde, e mi sembra di sentire anche un po’ di quell’odore di sale che porta la brezza di giugno.
Così perdo di nuovo di vista l’obiettivo dell’infelicità, mi toccherà ricominciare daccapo, forse mettermi a stirare potrebbe aiutarmi.
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